Gramsci e la Grande Guerra: un nuovo punto di vista
Spesso nel parlare dell’intellettuale e giornalista, nonché uno dei padri fondatori del Partito Comunista Italiano, Antonio Gramsci ci si riduce a citare i suoi scritti redatti durante la sua prigionia sotto il fascismo. Opere comunque importanti, che ci danno un’idea molto chiara del suo pensiero politico e della sua passione per la critica storica e letteraria ai grandi scritti italiani, soprattutto quelli di Dante e Machiavelli, ma che non ci fornisce un quadro veramente completo della sua formazione, del suo impegno giovanile in primis. La mostra “Gramsci e la Grande Guerra”, curata dalla Fondazione Gramsci e aperta fino al 10 marzo 2017 presso l’Archivio Centrale dello Stato, in occasione dell’ottantesimo anniversario della morte del fondatore del dissidente politico italiano più famoso di tutti i tempi, parte dal “voltafaccia” di Benito Mussolini, allora direttore dell’organo “Avanti!” ed esponente della frangia estremista del socialismo, la massimalista, il quale dal cauto neutralismo nei confronti dell’entrata al fronte dell’Italia nella Grande Guerra passò improvvisamente all’interventismo, causandogli la cacciata prima dal giornale e poi dal Partito Socialista, facendo da preludio alla nascita dei Fasci Italiani di Combattimento.
È proprio la contrapposizione tra la progressiva “degenerazione” di Mussolini e l’evoluzione del pensiero politico e sociale di Gramsci, allora un giovane studente universitario che scriveva sui vari organi di stampa, socialisti e non, uno dei punti focali della mostra.
Ci viene dato un ritratto di Antonio molto dettagliato, attraverso soprattutto le sue massime sulla guerra e sul suo immediato post, in primis nella sua considerazione finale, che dimostra quanto l’Italia stessa fosse uscita cambiata dalla Guerra Mondiale: “In questi ultimi cinque anni mi pare siano passati cinque secoli”. Senza contare poi la sua accoglienza tiepida nei confronti delle massime di Woodrow Wilson, del quale, pur criticando aspetti quali il suo americanismo e il capitalismo, apprezzava molto la sua volontà di liberalizzare gli scambi economici, e, di conseguenza, quelli culturali e sociali, che avrebbero portato a suo dire a una maggiore apertura mentale delle istituzioni, anche a seguito della considerazione e del potere che i socialisti sembravano aver acquisito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dimostrando, a suo dire, che la falce e il martello avevano finalmente dimostrato ciò di cui erano capaci.
Di Simone Pacifici