Non adesso, ma tra 5 anni chi governerà l’Italia?
Si addensano le nuvole, sopra il seggio elettorale. Le osservo distrattamente, chino sul mio smartphone, scorrendo i quotidiani online. Si sono appena concluse le operazioni di spoglio e mi appresto a tornare a casa. “Scusate, quando si sapranno i risultati definitivi?” chiedono due ragazzi di passaggio. “Più tardi, in mattinata, credo” ma intanto leggo loro le ultime notizie dal telefono. Del resto, con una partecipazione che sfiora l’80%, il mio seggio non è del tutto rappresentativo.
Giorgia Meloni, una ragazza della Garbatella, storico quartiere popolare romano, andrà probabilmente alla guida dell’Italia. Il simbolo vivente di una periferia italiana che, scontenta perchè trascurata, vota per chi le dà voce. Tanto si è scritto su questo e tanto si scriverà, ma poco ho letto su una domanda che mi pongo da tempo: tra cinque o dieci anni, chi governerà l’Italia?
“E’ naturale che i giovani siano radicali […] ma cosa succede a questo radicalismo quando incontra una crescente sfiducia nel cambiamento?“
Dieci mesi fa, mentre l’Italia si divideva sull’elezione del Presidente della Repubblica, l’Unione Europea pubblicava un interessante paper sul populismo. Oltre ad elencare quattro possibili scenari di evoluzione di questo fenomeno in Europa, il documento riportava qualche dato interessante: a colpirmi maggiormente, quello sulla crescente fiducia dei giovani nei governi autoritari. Il 53 % degli intervistati tra i 16 e i 30 anni affermava, infatti, che i governi autoritari sono più efficienti nell’affrontare emergenze importanti come quella climatica.
Di fronte a questi dati, accostati ad un allarmante dato sulla fiducia nella democrazia (solamente 31% in Italia) mi sono quindi chiesto che tipo di società ci aspettasse in un futuro in cui noi nuove generazioni saremo chiamate a governare crisi climatiche, migratorie e sanitarie probabilmente più ricorrenti.
“E’ naturale che i giovani siano radicali, non vi sarebbe progresso altrimenti” – mi fa notare un rappresentante di lista durante una pausa dalle operazioni di voto. Sessantottino, toscano, classe 1950, mi ricorda che la sfiducia verso la classe politica c’è sempre stata. Ma questo non fuga i miei dubbi. Cosa succede, infatti, quando il radicalismo dei giovani incontra una crescente sfiducia nel cambiamento?
“La polarizzazione non solo divide e disorienta l’elettorato, ma rende difficile capire il perché di un fenomeno nato dal disagio di chi si sente periferico“
Non è la prima elezione a cui partecipo come scrutatore, ma questa mi ha fatto riflettere per due aspetti: sono stati pochi i giovani venuti a votare e ancora di meno le schede “di protesta”. Mi hanno sempre colpito, infatti, queste schede: il fatto di uscire di casa, prendere la macchina e fare la fila al seggio solo per gridare il proprio scontento su di una scheda nasconde, a parer mio, una fiducia nel voto e nella speranza che attraverso questo si possa, comunque, esprimere il proprio pensiero. Chi non si è sentito rappresentato, invece, in questa tornata elettorale ha scelto di non recarsi al seggio: addirittura 4 milioni di persone in più rispetto a cinque anni fa, quando ad astenersi furono 12,5 milioni di persone. Secondo gli ultimi dati, non è andato a votare quasi un giovane su due.
Dati, questi, che vanno letti insieme a quelli sulla crisi demografica, quella dell’associazionismo, la crescente solitudine tra i giovani, la dispersione scolastica e la disoccupazione giovanile. L’elettore di domani quindi non solo non si sente rappresentato, ma ha probabilmente già deciso di non votare alle prossime elezioni e ha perso fiducia nella democrazia e nell’impegno politico-sociale perché, non lavorando e non studiando, non si sente realizzato. Se la nostra democrazia è in pericolo non è per il voto degli italiani, ma per il loro non voto.
Proprio il tema della tenuta delle istituzioni democratiche, infatti, è stato al centro del dibattito elettorale, che ha visto una grande polarizzazione nei toni: “istituzionalisti” contro “populisti”, “europeisti” contro “sovranisti” e via dicendo. Il pericolo, in realtà, è proprio qui: la polarizzazione non solo divide e disorienta l’elettorato, ma rende difficile capire il perché di un fenomeno nato dal disagio di chi si sente periferico come i giovani, gli abitanti delle periferie, i disoccupati. Non è forse un caso che il più alto tasso di polarizzazione del dibattito pubblico europeo sia registrato in Ungheria, “non più una democrazia”, secondo il Parlamento UE.
Se c’è quindi davvero un metodo per “salvare la democrazia” è quello di vedere il populismo come l’ultimo grido di chi crede che il voto possa continuare a produrre cambiamento: è un dato, infatti, che al crescere del populismo si è accompagnato un calo della partecipazione. Le prossime elezioni potrebbero vedere un altro interprete del populismo, ma di sicuro vedranno un ulteriore calo della partecipazione. Solo agendo sulle cause ultime di questo malessere sociale si potrà invertire questo trend.
“Uno Stato diventa invulnerabile quando si prende cura dei vulnerabili” diceva il rabbino Jonathan Sacks. Come sul clima, abbiamo infatti ancora una possibilità di raddrizzare la rotta: nella misura in cui sapremo intervenire su chi si sente ai margini potremo migliorare la nostra democrazia e renderla, magari, ancora più efficiente. La risposta e la chiave del domani sono solo lì: nell’entusiasmo trasformatore dei giovani e nella loro voglia di cambiare, ancora, il mondo. Lasciamola libera di agire.
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